Gli ortolani di San Fortunato

 

La storia del Convento di San Fortunato è strettamente legata alle vicende ed alle fortune agricole del territorio nei secoli passati. Infatti il noto motto benedettino “ora et labora” aveva contribuito a creare intorno all’illustre cenobio, per donazioni, lasciti ereditari o anche per permute ed acquisti, un patrimonio agricolo non trascurabile di alcune centinaia di campi e campicelli con prati, boschi e case coloniche, in un raggio territoriale abbastanza ampio che va da Bassano, ad Angarano, a Marostica, sino a Cittadella. Questo patrimonio anticamente portato avanti con contratti livellari o affittanze enfiteutiche talvolta inesigibili, tuttavia, non fu sempre garanzia di prosperità economica, anzi! La gestione alquanto complessa aveva già portato ad un primo fallimento nel 1411 della vecchia badessa suor Margherita, poi ad un secondo (1438) dei monaci padovani di Ludovico Barbo, ed ancora nell’anno 1450 con la rinuncia di don Nicolò da Fiesso e la sua congregazione. Soltanto con il ritorno dei benedettini padovani di Santa Giustina (1450) ed il radicale riordino economico (gli antichi contratti enfiteutici in natura, con censi annuali sovente simbolici e insignificanti vengono sostituiti da altri a mezzadria o a fittanza triennale, con canoni più adeguati e in denaro) si pongono così le basi per una equa ripresa economica e piena autonomia finanziaria da Padova. Il nostro cenobio però, che prima costituiva sede del noviziato, diventò granza o fattoria benedettina, che all’occorrenza si trasformerà in casa di ospitalità e di accoglienza per monaci anziani, infermi e bisognosi di riposo. Fu proprio in questo nuovo clima di ritrovata tranquillità economica che iniziarono, nel 1460, le operazioni di erezione della nuova chiesa e completo rinnovo edilizio dell’intero complesso monastico, lavori che si protrassero per circa cento e più anni. Ma ora ci occupiamo delle terre e delle coltivazioni, soprattutto di quelle più prossime al convento, quelle nella contrada di San Fortunato, un tempo detta strada del Caribolo, nel vecchio quartiere Villa di Bassano. La storia ci documenta che nel primo Cinquecento l’economia di Bassano, grazie al suo fiume e al commercio laniero e serico, realizzò il massimo del suo sviluppo. La campagna bassanese irrigata da una vasta rete di rogge cambiò volto: al posto delle praterie e delle estese pascolive del secolo precedente, inondate di greggi del monte e del piano, si alternarono sempre più fertili e numerosi campi di ortaglie, ma soprattutto filari di viti e distese di cereali. Anche la nostra granza, appena fuori della rinnovata sede, aveva il suo orto accudito da alcuni servitori dipendenti e dai monaci stessi; ma molti documenti d’archivio ci testimoniano che anche tutta la contrada era disseminata di floridi orti. Di più, considerando la tipica staticità economica e demografica del secolo XIX, praticamente fino la metà del Novecento scorso, possiamo credere che il volto della contrada di San Fortunato 40-50 anni fa non sia stato molto dissimile da quello dell’epoca della chiusura definitiva del monastero nel 1810. Attualmente la strada per San Fortunato appare trasformata in zona abitativa, molto verde e molto appetibile, ma prima dei grandi lavori fognari e stradali del 1965, partendo dalla Vecchia Colomba, passando oltre il Cristo (il vecchio Caribolo o quadrivio), fino all’aperta campagna di San Lazzaro, era una stradina di campagna, molto lunga e tortuosa, bianca e stretta tra due muri continui di sassi di fiume che delimitavano e proteggevano i numerosi orti. Ci dispiace molto che in troppi casi oggi, ricostruendo le mura confinarie delle nuove abitazioni, si preferisca intestare le sommità con volgari mattoni cotti anziché con umili ma eleganti sassi tondi di Brenta: perdiamo così un pezzo della nostra storia e delle nostre secolari abitudini. La foto a margine mostra il breve vicolo che portava al vecchio mulino dell’abbazia, un bell’esempio di muro di confine in sassi levigati dalle acque del Brenta. In questa lunga serie di mura si potevano contare, dal Cristo ai confini di San Lazzaro, non più di 10-15 accessi alle case coloniche con relativo orto. I cancelli erano per lo più schermati con legno o con lamiere (la necessità della privacy valeva anche in quei tempi, nonostante non ci fossero ancora le leggi e tutte le complicazioni di oggi!). Ogni casa, unito o staccato dal corpo principale, aveva il suo pòrtego per proteggere i carri e gli attrezzi agricoli; alcune erano dotate anche di forno a legna per la cottura del pane e di cantina interrata per il vino. Tutte invece possedevano poco distante un letamaio con annesso l’immancabile cesso per le necessità fisiologiche, nonché una cisterna più o meno grande per la riserva di acqua per l’orto. L’acqua utilizzata era quella piovana, raccolta naturalmente dai campi oppure spesso anche dalle cunette laterali della strada, che in occasione dei grossi temporali diventava un vero e proprio torrente (i primi impianti irrigui con pioggia artificiale apparvero solo dopo l’ultima guerra). La stalla molto piccola poteva contenere pochi bovini da latte e spesso, vuota, serviva da ripostiglio. Non mancava mai, invece, il porcile per due o tre capi al massimo e così pure il pollaio e naturalmente la legnaia. Gli orti erano generalmente di estensione limitata, sempre ben curati in modo da evitare ristagni d’acqua dannosi per le colture, sempre intercalati da filari di viti che offrivano confortevole ombra ai numerosi ortolani impegnati nelle varie operazioni colturali (semina, trapianto, abbeveraggio, diserbo manuale, raccolta, ecc.). I lavoratori portavano sempre un ampio cappello di paglia, rammendato chissà quante volte e vestiti da lavoro assai dimessi. Erano tutti molto religiosi  ed in ogni casa, nella cucina, oltre ai quadri con i vecchi ricordi di famiglia, c’era sempre, al posto d’onore, un capitello con le immagini sacre; immancabile sulla piccola mensola il classico vasetto di fiori freschi e un lumino ad olio. Esso veniva acceso quando i grossi temporali minacciavano grandine e disastri, quando la famiglia si raccoglieva in preghiera: “Dai fulmini e dalle tempeste, liberaci o Signore!”. Una considerazione mi venne improvvisa, non molto tempo fa un pomeriggio piovoso, rovistando nella vecchia casa seicentesca disabitata della Nanea Zonta, ortolana sicuramente testimone del Voto del 1879 e dell’inizio della nostra Festa; stavo armeggiando con un paio di vecchie aste di robusta conifera, un tempo usate per trasportare appesi i baloni’ della sagra: l’idea che ancora mi martella la mente è che furono proprio gli ortolani di San Fortunato a dare inizio alla secolare grande festa della Madonna del Rosario che ancora oggi riviviamo. Ortolani erano i padri dei fanciulli toccati dal morbo difterico ed anche i vecchi promotori della Festa erano tutti ortolani, tutta gente umile, laboriosa e meticolosa. Se li chiamavi ‘contadini’, rischiavi di offenderli, perché essi amavano definirsi semplicemente ed orgogliosamente “Ortolani”.

  Giuseppe Zonta

 

 Riferimenti storici tratti dai volumi:

 

«Origini e vicende del monastero benedettino di San Fortunato di Bassano» di Franco Signori

 

«Memorie, cronache e personaggi intorno alla festa votiva di San Fortunato» di GiuseppeZonta.